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Vittima e vittimologia

 

La nascita della “vittimologia” come scienza può essere fatta risalire al 1948, anno in cui venne pubblicata l’opera di Hans Von Henting “The Criminal and His Victim[1] , all'interno della quale, ai fini di una più completa interpretazione e comprensione del fenomeno criminoso, l’indagine inizia ad essere proiettata e spostata anche sul soggetto passivo del reato, sulle sue caratteristiche e sul ruolo da lui rivestito all'interno della vicenda criminale. 

 

Tuttavia, per parlare di “vittimologia” bisognerà attendere il 1949, con lo psichiatra Wertham, mentre per fare di essa una vera scienza autonoma, occorrerà leggere i contributi offerti sul tema dallo studioso Mendelshon.


È grazie a questi primi studiosi che, infatti, si è addivenuti alla predisposizione di una sorta di modulo d’intervista da sottoporre alle vittime, con il quale individuarne le caratteristiche a livello non solo personologico, ma anche sociale e relazionale, nonché il ruolo eventualmente rivestito dalle stesse rispetto alla genesi del reato, nel presupposto fondamentale che esse possano rappresentare un elemento non meramente passivo, ma dinamico.

 

Taluni Autori, successivamente, nell'enfatizzare maggiormente la connessione tra la vittima e il fenomeno criminale, ed in forma più estrema, sono giunti ad ascrivere alla vittima stessa una sorta di “responsabilità funzionale” rispetto alla condotta illecita [2]
Ovviamente si è trattato di locuzioni estreme che, di certo, non possono portare ad affermare una responsabilità di tipo giuridico da parte del soggetto offeso che, comunque, è e resta pur sempre il soggetto passivo del reato.

 

Piuttosto, il contributo anche attuale della vittimologia può essere considerato di natura preventiva, poiché consente di individuare con maggiore dettaglio e chiarezza, sia pure senza pretese esaustive e di completezza, quelle situazioni potenzialmente considerate come “vittimogene”[3] .

 

La relazione tra la vittima e il suo Autore cela in sé una serie di aspetti fondamentali, la rivelazione ed interpretazione dei quali svolge un ruolo determinante anche nella sede processuale propriamente detta, poiché il crimine in quanto tale si configura come un evento dinamico e interattivo nella cui genesi non può escludersi l’importanza di entrambe le figure coinvolte, sia dal punto di vista attivo che passivo.

 

I primi ambiti applicativi della vittimologia si sono concentrati, soprattutto, sul rapporto tra la vittima e il suo aggressore e sul ruolo della stessa nella dinamica delittuosa, considerando, altresì, il contesto sia di tipo fisico che di tipo psicologico in cui l’evento ha trovato attuazione[4].

Nella sua indagine fenomenologica, la vittimologia analizza, qualora si tratti di vittime sopravvissute, anche le conseguenze fisiche (danni biologici), psicologiche (depressione, traumi di varia natura), e sociali (come le reazioni da parte dei diversi gruppi di appartenenza, che vanno da quello familiare a quello amicale ed a quello lavorativo) collegate all'azione delittuosa, senza nulla trascurare di tutto ciò.

A tal proposito, prendendo spunto dalla classificazione riconducibile alle teorie di Von Henting e Mendelsohn, è possibile distinguere l’Innocent Victim, che è quella che per casualità si trova nel posto e nel tempo sbagliato; la Depressive Victim, poco attenta; la Greedy Victim, facilmente preda di truffe poiché molto avvezza agli affari; la Unmotivated Victim, incline ad assumere comportamenti rischiosi; la Harassing Victim che subisce le reazioni di soggetti cui crea fastidio; la Assailant Victim, che subisce le reazioni di soggetti da essa stessa aggrediti[5].

Successivamente, nel 1978, Hindelang, Gottfredson e Garofalo hanno contribuito a creare un nuovo modello di vittimizzazione, attento soprattutto alla valutazione dello stile di vita della vittima e degli atteggiamenti della stessa che potrebbero vederla maggiormente

esposta al rischio, considerando anche gli ambienti ed i luoghi principali di frequentazione[6].

Nel 1987 lo studioso Stark ha elaborato una teoria che fa leva esclusivamente sui luoghi, piuttosto che sulle persone e sulle situazioni, evidenziando come la vulnerabilità dei soggetti sia legata al fatto di risiedere in aree urbane disorganizzate e disadattate[7] .

 

Negli ultimi decenni, utilizzando anche i dati provenienti da inchieste eseguite su campioni di popolazione, si è approfondito lo studio delle vittime attraverso l’analisi della frequenza delle esperienze di vittimizzazione, del rischio di subire reati, delle conseguenze cui sono esposte e della paura stessa del crimine. Ciò che è emerso è che il rischio di vittimizzazione varia in ragione dell’età, dell’area territoriale e della fattispecie di reato di riferimento.

 

La maggiore vulnerabilità è stata, senz'altro, riconosciuta in soggetti potenzialmente più deboli a causa delle condizioni psicologiche, sociali e culturali, come ad esempio gli anziani, i bambini e le donne. 


A tal proposito lo studioso Fattah, nel 1971, aveva distinto tre tipologie di predisposizione, ovvero quella sociale, fondata sulle condizioni e sullo stile di vita, quella psicologica, incentrata sui tratti della personalità e del carattere, e quella biopsicologica legata all'età, al sesso ed alla razza[8].

Le considerazioni che precedono ci consentono di poter, quindi, affermare che ogniqualvolta ci si trovi dinanzi ad una vittima, sia anche configurabile un’ipotesi di danno. A tal proposito nella letteratura presente sul tema si precisa che i danni che una vittima subisce in seguito ad un reato sono classificabili in primari ed in secondari, laddove i primi “individuano le conseguenze dirette causate dal fatto criminoso, mentre i secondi sono da intendere come conseguenze della risposta formale e/o informale alla vittimizzazione”[9]

 

Nello specifico, i danni cosiddetti primari sono ricollegabili alle conseguenze che sul piano psicologico, fisico ed emotivo un evento delittuoso è in grado di cagionare - essendo essi in stretta correlazione con il fatto materiale di reato subito dalla vittima - oltre ad essere caratterizzati da una diversa durata, in ragione del tipo di vittima e di reato.

In questa tipologia di danni è possibile far rientrare anche lo stato d’ansia e la paura di essere nuovamente vittime di reato.

 

Diversamente, i danni secondari derivano dalle riposte offerte dalle costruzioni e dagli organi sociali preposti a tutela delle vittime, ragion per cui è corretto pensare che il mancato riconoscimento della condizione di vittima, la frustrazione delle aspettative e la reazione sociale all'evento subito siano idonei ad incidere sull'immagine che la persona possiede di sé e sulla propria rete di relazioni sociali. 

In diverse situazioni, infatti, la non tempestiva attivazione della macchina giudiziaria, come la risposta poco adeguata e, a volte, si direbbe approssimativa da parte delle forze di polizia e dei servizi sociali, contribuiscono ad innescare nella vittima disturbi e patologie riconducibili, appunto, all’ambito della vittimizzazione secondaria. 

A tal proposito piace proprio riportare una definizione tratta dalla letteratura prevalente sul tema, laddove per vittimizzazione secondaria si indica, “l’insieme delle conseguenze negative in termini di

stigmatizzazione che l’atteggiamento avverso della comunità di riferimento e l’azione delle agenzie di controllo possono generare sulla loro identità[10].

È possibile, infatti, che una stessa persona sia vittima di più reati anche in un breve lasso di tempo, divenendo così una sorta di “vittima multipla” oppure che sia più volte vittima dello stesso reato, secondo un processo di “vittimizzazione ripetuta”, proprio perché i soggetti che hanno subito un reato hanno maggiori possibilità di subirne altri rispetto al resto della popolazione e necessitano, dunque,

di maggiori interventi a sostegno diretti ad evitare siffatta plurivittimizzazione.

 

Il punto di partenza da cui muove la giurisprudenza prevalente è quello secondo cui ciascun coniuge è titolare, all'interno del rapporto di coppia, di diritti inviolabili, quali il diritto alla salute, alla personalità, all'immagine, all'onore, che di certo non possono essere compromessi e “scriminati” dalla celebrazione di un matrimonio, poiché attendono a ciascun membro della famiglia in quanto persona[11]

Il rispetto della dignità e della personalità di ogni componente del nucleo familiare assume, dunque, i connotati di un diritto inviolabile, la cui lesione da parte di altro componente del nucleo familiare, come da parte di un terzo, costituisce il presupposto logico della responsabilità civile, non potendo ritenersi che diritti delineati come inviolabili ricevano diversa tutela a seconda che i loro titolari si pongano o meno all'interno di un contesto familiare[12].

Ecco perché non sussistono ostacoli al riconoscimento della responsabilità aquiliana da danno esistenziale alle vittime di reati intra-familiari, dovendosi guardare nello specifico a quali attività e/o situazioni siano state compromesse, da quelle più specificamente reddituali, a quelle ludiche, al riposo, fino alla semplice serenità familiare ed alle dinamiche affettive interpersonali. 

Nel caso del danno esistenziale l’accento cade sulla cosiddetta compromissione delle “attività realizzatrici” dell’individuo, sia di natura attuale che potenziale[13].


L’essenza del danno esistenziale risiede nel concetto di perdita, nella forzosa rinuncia allo svolgimento di attività che prima venivano svolte, o nella necessità di doverne fare altre, meno gradite, programmando, così, “un’agenda diversa e peggiore”[14].
 

Ecco perché ci si trova nell'area di un pregiudizio a-reddituale, non patrimoniale, di natura omnicomprensiva, poiché in grado di includere in sé stesso una categoria unica ed unificante dei danni non patrimoniali derivanti da una qualsiasi privazione o lesione delle attività esistenziali del soggetto che è stato danneggiato. 

Pertanto è un danno ben distinto sia da quello biologico - inteso come lesione del bene giuridico salute - poiché esiste a prescindere da una lesione dell’integrità corporea o alla salute medicalmente accertabile, sia dal danno di natura psichica, che intacca l’equilibrio mentale o la capacità di intendere e di volere, sia dal danno morale in senso stretto inteso come sofferenza e pretium doloris, poiché è diretto ad alterare alcuni dei dinamismi tipici del vivere, comportando un diverso fare e dover fare (o non più fare), un altro modo di rapportarsi al mondo esterno-città e dintorni, quartiere, condominio, paese, trasporti, servizi, spazi di tempo libero[15].

A titolo meramente esemplificativo sono comunemente riconosciute, anche a livello giurisprudenziale, le maggiori componenti del danno e della pervasività sicuramente cagionate da una violenza o da una molestia sessuale che provenga dal padre, dal fratello o dal partner della vittima. 


Ivi ad essere profondamente intaccata, infatti, è proprio quella struttura dell’affettività e di tenerezza che, per quanto inesigibile sulla carta, aveva caratterizzato in origine il tessuto intero delle relazioni tra la vittima e l’autore dell’illecito, compromettendone la trama di fondo che l’individuo era giunto a proiettare su se stesso sino a quel momento. 
 

Dott. Gian Luca Pizzichelli

 

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